Mentre tutti invocano una scuola normale, io desidero una scuola paradossale, che vada contro l’immaginario collettivo spesso scontato e anche un po’ asfissiante e, di questi tempi, certamente lamentoso e preoccupante.
Una scuola che faccia della mascherina, dispositivo “chirurgico” che copre labbra e naso, uno strumento per imparare il linguaggio degli occhi e dei loro movimenti. Due finestre aperte sul mondo interiore di chi guarda e si lascia guardare, che si spalancano a patto che sia girata una maniglia impugnabile solo dall’esterno, da parte di chi è disposto a vedere e, soprattutto, a stupirsi dell’altro. Chi è dentro non può esimersi dal mostrarsi, dal rivelare quelle pieghe di umanità che prendono il nome di emozioni, slanci, delusioni, desideri, attese... Ma solo chi è all’esterno e si avvicina può spingere lo sguardo al di là delle tende leggere che scendono sulla sincerità degli sguardi e che tentano - il più delle volte maldestramente- di renderli opachi, per una ritrosia e un pudore che non attendono altro che essere vinti.
Desidero una scuola che, paradossalmente, faccia del distanziamento un’occasione per imparare l’empatia e per esercitare simpatia. Non sempre sono necessarie le braccia per andare verso l’altro o attirare a sé. Spesso basta quell’alchimia di gesti, sguardi e parole che, come osserva Manzoni, inteneriscono l’animo dei giovani.
Mi entusiasma una scuola che esige la corresponsabilità, la cura vicendevole, l’attenzione reciproca perché nessuno procuri danno a nessuno ed ognuno favorisca la salute di ciascuno. È l’attuazione più vera della “social catena” di leopardiana intuizione: quella solidarietà vicendevole senza la quale non può essere contrastata l’azione avversa che la natura talvolta esercita, anche con la pandemia. Fa riecheggiare soprattutto quella fratellanza evangelica, che non è buonismo ma comunione.
Mi piace, molto paradossalmente, quel pensiero strisciante, fastidioso, male augurante che insinua il timore di potersi ammalare. Mi spinge a desiderare un pensiero certo su cui riposare e non le idee traballanti della precarietà. Forse - mi dico - c’è sempre un pensiero più alto a cui ambire e nel quale riporre fiducia.
Paradossalmente, insomma, desidero una scuola paradossale come la tartaruga di Zenone che, proprio per la sua lentezza, raggiunge il pié veloce Achille. È la stessa lentezza che caratterizza lo scorrere delle giornate scolastiche e che tuttavia risulta vincente perché permette di raggiungere il traguardo di una profondità umana che solo con la pazienza lenta e con l’incedere graduale, ma costante può essere autentico traguardo di crescita.
Domenico Vescia