LA SIGNORA: UNA MONACA “SINGOLARE”

Lazzaretto

LA SIGNORA: UNA MONACA “SINGOLARE”

La figura della cosiddetta Monaca di Monza costituisce il primo personaggio del romanzo dotato di un’autentica consistenza storica. Marianna de Leyva, figlia del nobile di origine spagnola don Martino de Leyva, fu costretta dal padre ad entrare nel Monastero di S. Margherita in Monza, città di cui egli era feudatario. Ella vestì l’abito religioso all’età di tredici anni, il 15 marzo 1589, nel pieno rispetto delle prescrizioni canoniche che richiedevano alla novizia di aver compiuto i 12 anni di età. Assunse il nome di suor Virginia Maria, in ricordo della defunta madre.

Manzoni conosce profondamente la vicenda storica del personaggio, soprattutto per il fatto che ha avuto modo di consultare le fonti archivistiche; adatta tuttavia la figura alla vicenda da narrare. Non ha la pretesa di tracciare un quadro storicamente attendibile ma, a partire da una base documentale, modifica ciò che gli basta per inserire il personaggio nella finzione letteraria. A questo proposito è emblematica la scelta di modificare il nome secolare del personaggio: Gertrude, invece di Marianna.

Forte della sua appartenenza a quel complesso di ideali che fanno capo al Romanticismo e soprattutto della consapevolezza di essere dotato – in quanto letterato – di una sensibilità superiore, egli cerca di penetrare in profondità nell’animo della sua Gertrude: ne indaga le pieghe nascoste, ne interpreta i moti, ne scruta la sensibilità. Lungi dall’improvvisarsi psicologo ante litteram, Manzoni va alla ricerca delle motivazioni profonde che determinano le scelte, gli atteggiamenti e i comportamenti tenuti dalla monaca, con particolare interesse verso i traumi che ella ha subito.

Da questo punto di vista, la presentazione del personaggio che lo scrittore propone nel capitolo 9 del Romanzo è un capolavoro assoluto. La parola chiave sulla base della quale egli si muove è un aggettivo: singolare, nelle sue accezioni di “diverso dal solito”, “fuori dal comune”, “inaspettato”, capace di destare stupore e suscitare curiosità

Innanzitutto Manzoni si sofferma su ciò che appare immediatamente agli occhi di chi incontra suor Virginia per la prima volta, come capita a Lucia: ella è giovane e possiede tratti che permettono di definirla esteticamente bella.

Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta.

Il viso di suor Virginia definisce la sua persona proprio nel tratto che più si impone: è certamente una donna bella, ma la sua bellezza appare secondo tre connotazioni che colpiscono per il loro stridore. Si tratta, innanzitutto, di una bellezza sbattuta che, sotto l’apparente finezza dei tratti, mostra i segni di una lunga sofferenza e, nello stesso tempo, di un logoramento interiore. È poi una bellezza sfiorita, quasi consumata, incoerente con la giovane età della persona sulla quale si manifesta. Da ultimo è una bellezza scomposta, vale a dire non curata, trascurata, tipica della persona che ha smesso di prendersi cura di sé.

Per chi inizia ad immergersi nella storia che lo scrittore si appresta a narrare, lo stridore diventerà evidenza: un’esistenza come quella di Gertrude, divenuta suor Virginia, non poteva che condurre al degrado, alla corruzione.

A questo punto, lo scrittore restringe il campo e la sua descrizione si concentra sul volto della monaca che, tuttavia, il lettore non scopre immediatamente. Prima è condotto a concentrarsi sugli elementi dell’abbigliamento che costituiscono la cornice del viso: il velo, le bende, il soggolo.

Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio.

L’abile descrizione giunge così al viso che viene indagato procedendo dall’alto verso il basso: innanzitutto la fronte e, sotto di essa, le sopracciglia. La prima ha la tendenza a contrarsi, aiutata dalle seconde che, con il loro movimento, accentuano la sensazione di turbamento:

Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento.

La fronte si raggrinzisce per effetto dei pensieri e degli stati d’animo che, in alcuni momenti, si concentrano sui ricordi dolorosi dell’infanzia e dell’adolescenza; in altri meditano vendetta, in altri ancora progettano azioni disoneste o addirittura malvage; infine determinano la consapevolezza di un futuro destinato inesorabilmente al degrado e all’infelicità.

Rivelatori, come sempre nel romanzo, sono gli occhi, che l’autore descrive con grande abilità e con l’intenzione di suscitare nel lettore la consapevolezza di una persona che vive una grande sofferenza e un vivo disagio:

Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti.

Le gote e la labbra di suor Virginia sono messe in evidenza per sottolineare, ancora una volta i tratti di bellezza del personaggio. Esse, tuttavia, lungi dal mostrare una personalità pacata e pacificata, sono elementi rivelatori di una condizione di sofferenza:

Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione.

Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero.

Le gote, dal tratto raffinato, denotano estenuazione: rendono evidente la mancanza di slancio della persona, il suo stato di fatica, la consumazione di ogni energia positiva e vitale. L’esistenza di suor Virginia è affaticata dalle sofferenza subite e, purtroppo, arrecate (come sarà evidente in seguito) e la sua persona è priva di ogni energia positiva per potersi risollevare e ritrovare vigore.

Cosa nasconde una monaca che si presenta così? A rendere lecita la domanda è il particolare delle labbra i cui movimenti sono pieni di espressione, sono capaci cioè di insinuare un sospetto, di indurre l’osservatore a chiedersi quale mistero sconcertante si nasconda nella persona.

A questo punto Manzoni propone una sorta di affondo capace di orientare la percezione del mistero e di indurre il lettore ad intuire che la causa della singolarità di suor Virginia è il suo stesso stato di vita, quella vocazione monastica che – sarà rivelato in seguito – ella non ha scelto:

La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.

Senza ombra di dubbio, la sua non è dimenticanza, ma disprezzo. Ella detesta la regola monastica, gli obblighi della vita religiosa, le prescrizioni dello stato di vita che le era stato imposto con una violenza aberrante da parte del padre.

Domenico Vescia