ALESSANDRO MANZONI, I Promessi Sposi, XXXV

LA MISERICORDIA PER PURIFICARE LA PROPRIA UMANITA’

Renzo al Lazzaretto

Lazzaretto

Renzo conosce la realtà della peste, non solo perché si ammala e guarisce, ma soprattutto perché ne sperimenta il potenziale distruttivo. Il contagio sconvolge le relazioni sociali, provoca gesti brutali, mette in campo esigenze materiali capaci di compromettere o, addirittura, annientare le componenti più profonde dell’uomo.

A contatto con il morbo e con la sua diffusione, egli sperimenta il bisogno di purificarsi per ritrovare la verità di se stesso, per valorizzare la sua capacità di commuoversi di fronte al bene, di compiere gesti di attenzione e solidarietà, di provare tenerezza e commozione.

Aprendo il capitolo XXXV de I Promessi Sposi, Manzoni tratteggia un quadro di desolazione che, ad una lettura profonda, si rivela solo apparente.

Renzo si trova all’interno del Lazzaretto, di cui percepisce l’atmosfera cupa e miserevole. In quello spazio popolato da ben 16.000 appestati si affollano moribondi e cadaveri, si affannano frati, persone addette alle faccende più varie e monatti. Il cielo è cupo, l’odore asfissiante e i gemiti stringono il cuore.

Renzo sta cercando la sua Lucia, quando il suo sguardo si spinge oltre lo spiraglio di una staccionata e vede una scena commuovente.

Già aveva il giovine girato un bel pezzo, e senza frutto, per quell’andirivieni di capanne, quando, nella varietà de’ lamenti e nella confusione del mormorìo, cominciò a distinguere un misto singolare di vagiti e di belati; fin che arrivò a un assito scheggiato e sconnesso, di dentro il quale veniva quel suono straordinario. Mise un occhio a un largo spiraglio, tra due asse, e vide un recinto con dentro capanne sparse, e […] bambinelli a giacere sopra materassine, o guanciali, o lenzoli distesi, o topponi; e balie e altre donne in faccende; e, ciò che più di tutto attraeva e fermava lo sguardo, capre mescolate con quelle, e fatte loro aiutanti: uno spedale d’innocenti, quale il luogo e il tempo potevan darlo. Era, dico, una cosa singolare a vedere alcune di quelle bestie, ritte e quiete sopra questo e quel bambino, dargli la poppa; e qualche altra accorrere a un vagito, come con senso materno, e fermarsi presso il piccolo allievo, e procurar d’accomodarcisi sopra, e belare, e dimenarsi, quasi chiamando chi venisse in aiuto a tutt’e due.
Qua e là eran sedute balie con bambini al petto; alcune in tal atto d’amore, da far nascer dubbio nel riguardante, se fossero state attirate in quel luogo dalla paga, o da quella carità spontanea che va in cerca de’ bisogni e de’ dolori. Una di esse, tutta accorata, staccava dal suo petto esausto un meschinello piangente, e andava tristamente cercando la bestia, che potesse far le sue veci. Un’altra guardava con occhio di compiacenza quello che le si era addormentato alla poppa, e baciatolo mollemente, andava in una capanna a posarlo sur una materassina. Ma una terza, abbandonando il suo petto al lattante straniero, con una cert’aria però non di trascuranza, ma di preoccupazione, guardava fisso il cielo: a che pensava essa, in quell’atto, con quello sguardo, se non a un nato dalle sue viscere, che, forse poco prima, aveva succhiato quel petto, che forse c’era spirato sopra? Altre donne più attempate attendevano ad altri servizi. Una accorreva alle grida d’un bambino affamato, lo prendeva, e lo portava vicino a una capra che pascolava a un mucchio d’erba fresca, e glielo presentava alle poppe, gridando l’inesperto animale e accarezzandolo insieme, affinché si prestasse dolcemente all’ufizio. Questa correva a prendere un poverino, che una capra tutt’intenta a allattarne un altro, pestava con una zampa: quella portava in qua e in la il suo, ninnandolo, cercando, ora d’addormentarlo col canto, ora d’acquietarlo con dolci parole, chiamandolo con un nome ch’essa medesima gli aveva messo.

Balie e caprette allattano i neonati rimasti orfani.

È una scena che parla il linguaggio della desolazione, espressa soprattutto dalla donna che, allattando, guarda il cielo, pensando al proprio figlio morto da poco. Tuttavia il tono preponderante è quello della carità.

È l’alternativa al male, così ben raffigurato dalla peste e da tutte le conseguenze che il morbo porta con sé. È proprio quel gesto di carità che commuove Renzo e gli fa ritrovare la sua capacità di intenerirsi e di gioire del bene altrui. Egli si scopre fatto per il bene.

lazzaretto padre cristoforo

Continuando nel suo percorso di ricerca, Renzo incontra Padre Cristoforo, giunto appositamente dal convento di Rimini per curare gli appestati. Lo ritrova invecchiato e stanco, ma con una fede indomita. Mentre gli racconta le peripezie vissute dopo aver lasciato il paesello, Renzo dichiara il proprio odio nei confronti di don Rodrigo e confessa il suo desiderio di vendetta. Padre Cristoforo lo rimprovera aspramente e fa il gesto di allontanarlo.

L’odio è indegno dell’uomo, tanto meno del cristiano.

L’odio distrugge e l’unico modo di annientarlo è quello di donare il perdono.

Renzo rientra in sé, si fa pensoso e dichiara la sua intenzione di accostarsi a don Rodrigo e di perdonarlo. Solo in questo momento il frate lo conduce al capezzale del signorotto agonizzante.

Renzo […] vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa, involtato in un lenzolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un passo indietro; ma il frate […] lo tirò appiè del covile, e, stesavi sopra l’altra mano, accennava col dito l’uomo che vi giaceva.
Stava l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.
- Tu vedi! - disse il frate, con voce bassa e grave. - Può esser gastigo, può esser misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che t’ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui come tu lo vedi, senza dar segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d’un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione... d’amore!
Tacque; e, giunte le mani, chinò il viso sopra di esse, e pregò: Renzo fece lo stesso.

Ecco dove finiscono l’arroganza e la prepotenza. Don Rodrigo “sta”: è immobile, agonizzante, privo di emozioni, in attesa solo della morte. I suoi occhi sono spalancati, ma senza vedere, come se la sua unica possibilità – in quel momento – sia quella di guardare all’interno di sé per analizzare la sua vita, in un’ultima possibilità di salvezza. Solo Dio può sapere se egli stia chiedendo perdono e solo il Padre può accordargli la salvezza.

Agli uomini – e a Renzo in particolare – spettano il perdono e la preghiera. È il momento della misericordia, è l’occasione per sperimentare la capacità di mettere il proprio cuore accanto al cuore di un altro. Ecco la dimensione dell’amore che, sola, riscatta dal male visto, subito, compiuto.