ALESSANDRO MANZONI, I Promessi sposi, XXXIII

IL QUADRUPLICE DRAMMA DI DON RODRIGO, IL PREPOTENTE ATTERRATO.

Quando la presunzione “naufraga”

Al capitolo XXXIII de I Promessi Sposi si trova una delle pagine più drammatiche del Romanzo. Come su un palcoscenico, Manzoni mette in scena la tragedia di una vita che naufraga miseramente e nel modo più doloroso possibile.

Don Rodrigo, il principale cattivo della vicenda, quello dai cui capricci e dalla cui prepotenza prendono avvio i giorni dolorosi e travagliati di Renzo, Lucia ed Agnese, si scontra con un limite terribile, un freno imperioso alla sua prepotenza: il terribile morbo della peste lo travolge e lo fa precipitare nella disperazione più cupa.

Sul versante stilistico, la narrazione manzoniana è condotta su toni cupi, inquietanti; il lessico appartiene prevalentemente alle aree semantiche del dolore e della morte; il ritmo narrativo alterna periodi concitati e altri di una pacatezza angosciante.

F. Gonin, Don Rodrigo e i monatti

Dopo il terribile incubo durante il quale rivive, amplificata nei toni, lo spavento di quel “Verrà un giorno”, proferito da fra’ Cristoforo di fronte alla sua ostinazione nel voler tormentare la povera Lucia, Don Rodrigo si risveglia affannato e smarrito. Non si tratta solo dell’agitazione causata dal sogno, ma anche dell’affanno provocato dalla peste.

Quello che teme diventa realtà: nella parte sinistra del suo corpo scopre il bubbone pestifero. E il terrore lo invade.

Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo.
L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzeretto. E cercando la maniera d’evitare quest’orribile sorte, sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione.

Il suo smarrimento è totale: ha il terrore di morire e, prima ancora, di essere preso dai “turpi” monatti che lo caricherebbero sul loro carro pieno di cadaveri e lo butterebbero al lazzaretto, in attesa della morte. Il terrore cresce. È come terrorizzato dal suo stesso terrore e inizia a provare una cupa disperazione.

È il suo primo dramma: il contagio, quello più spaventoso, più cupo, più disperato, quello della peste.

Aveva pensato di essere onnipotente. E ora trova un segnale d’arresto a cui non aveva mai pensato e dal quale si sente sopraffatto.

Forse il fedele Griso potrebbe, in qualche modo, aiutarlo, soprattutto adesso, quando il suo padrone si mostra estremamente debole. Sarebbe anche il momento in cui mostrargli gratitudine.

Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all’erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò attentamente il padrone, e s’accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
- Griso! - disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: - tu sei sempre stato il mio fido.
- Sì, signore.
- T’ho sempre fatto del bene.
- Per sua bontà.
- Di te mi posso fidare...!
- Diavolo!
- Sto male, Griso.
- Me n’ero accorto.
- Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n’ho fatto per il passato.
Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi preamboli.
- Non voglio fidarmi d’altri che di te, - riprese don Rodrigo: - fammi un piacere, Griso.
- Comandi, - disse questo, rispondendo con la formola solita a quell’insolita.
- Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?
- Lo so benissimo.
- È un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va’ a chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa’ la cosa bene, che nessun se n’avveda.
- Ben pensato, - disse il Griso: - vo e torno subito.
- Senti, Griso: dammi prima un po’ d’acqua. Mi sento un’arsione, che non ne posso più.
- No, signore, - rispose il Griso: - niente senza il parere del medico. Son mali bisbetici: non c’è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui col Chiodo.
Così detto, uscì, raccostando l’uscio.
Don Rodrigo, tornato sotto, l’accompagnava con l’immaginazione alla casa del Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo. Ogni tanto ritornava a guardare il suo bubbone; ma voltava subito la testa dall’altra parte, con ribrezzo.

Ecco un altro galantuomo: il Chiodo chirurgo, che si lascia corrompere per non denunciare i malati! Ma del resto, a chi può ricorrere un uomo abituato ad aggirare qualsiasi regola e farsi la legge da sé?

Naturalmente il Griso finge di assecondarlo e, con modi subdoli, cerca di tranquillizzare il suo capo. Sta mettendo insieme, con grande precisione, tutti gli elementi del suo disonesto piano.

Ecco il secondo dramma del nostro Don Rodrigo:

aveva architettato tanti piani per ingannare le persone, per far loro del male, per tiranneggiarle ed ora è lui la vittima di un piano efferato.

Un piano che non tarderà a scoprire.

Dopo qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava: e quello sforzo d’attenzione sospendeva il sentimento del male, e teneva in sesto i suoi pensieri. Tutt’a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente un rumor cupo nella stanza vicina, come d’un peso che venga messo giù con riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all’uscio, lo vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare.
- Ah traditore infame!... Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son assassinato! - grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare una pistola; l’afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan preso la rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere, e lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di scherno: - ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno l’opere di misericordia!
- Tienlo bene, fin che lo portiam via, - disse il compagno, andando verso uno scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la serratura.

Non è uno stupido, Don Rodrigo. Gli bastano pochi indizi per capire che il Griso lo sta tradendo. Molto acuta è l’osservazione manzoniana riferita alla psicologia del signorotto, talmente convinto che il Griso, da servitore fedele, lo aiuterà che fa uno sforzo d’attenzione tale da non considerare, per un momento, il suo male. Gli basta poco tuttavia per capire che le cose non stanno andando come aveva ordinato.

E così un orrendo sospetto lo attraversa: il suo Griso lo sta tradendo.

Non era andato a chiamare il Chiodo chirurgo, ma due monatti dai logori e sudici vestiti rossi e con due facce scomunicate.

E il tradimento avviene nella maniera più odiosa e violenta possibile.

È il terzo dramma vissuto da Don Rodrigo.

Proprio lui, traditore di ogni vincolo umano, deve subire un tradimento tanto inaspettato, quanto violentemente infame.

- Scellerato! - urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all’altro che lo teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. - Lasciatemi ammazzar quell’infame, - diceva quindi ai monatti, - e poi fate di me quel che volete -. Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era inutile, perché l’abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone stesso, prima d’andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella spedizione, e divider le spoglie.
- Sta’ buono, sta’ buono, - diceva allo sventurato Rodrigo l’aguzzino che lo teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan bottino, gridava: - fate le cose da galantuomini!
- Tu! tu! - mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti, - Tu! dopo...! Ah diavolo dell’inferno! Posso ancora guarire! posso guarire! - Il Griso non fiatava, e neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle parole.
- Tienlo forte, - diceva l’altro monatto: - è fuor di sé.

Ed era ormai vero. Dopo un grand’urlo, dopo un ultimo e più violento sforzo per mettersi in libertà, cadde tutt’a un tratto rifinito e stupido: guardava però ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava.
I monatti lo presero, uno per i piedi, e l’altro per le spalle, e andarono a posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via.

Povero Don Rodrigo!

In che brutto affare sei capitato! Che fine ingloriosa stai facendo!

Del resto, sei sempre stato un mediocre, anche nel malaffare.

Hai sempre avuto bisogno di coprirti le spalle e di creare alleanze: il Conte Attilio perché desse forza ai tuoi propositi di tiranneggiare Lucia; il Dottor Azzacca Garbugli per suggerirti il modo di aggirare le leggi; l’Innominato per compiere per tuo conto l’impresa più efferata, il rapimento di Lucia. Hai avuto bisogno del conte zio per allontanare il tuo nemico, Fra Cristoforo, un’autentica minaccia per te, uomo senza coscienza. Hai avuto necessità di dar forza al presunto potere che ritenevi di avere, circondandoti di una schiera di bravi e ti sei sentito potente a minacciare un povero curato, per giunta codardo e arrendevole.

E adesso: non sei più nessuno, sei disarmato, senza artigli e senza forza, neppure quella del male.

Ecco il tuo dramma più grande, il quarto: il fallimento della tua vita.

Un fallimento che prende il volto della sconfitta,

che ti presenta il conto di un’esistenza inconsistente e vuota,

che ti prospetta il nulla.

Forse però sei riuscito a lasciare un’eredità: hai prodotto uno come te, rozzo e insignificante; uno che fa la tua stessa drammatica fine.

Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui; fece di tutto un fagotto, e se n’andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell’ultima furia del frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C’ebbe però a pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto de’ brividi, gli s’abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò. Abbandonato da’ compagni, andò in mano de’ monatti, che, spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima d’arrivare al lazzeretto, dov’era stato portato il suo padrone.



Domenico Vescia

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