Giacomo Leopardi attraverso le parole della sua poetica: PIACERE

Giacomo Leopardi

Gli anni tra il 1815 e il 1816 sono cruciali per l’evoluzione della poetica leopardiana e per la formazione delle idee e delle convinzioni che stanno alla base della sua visione dell’esistenza umana.

Avviene la cosiddetta conversione “dall’erudizione al vero”: il poeta abbandona i minuziosi lavori filologici sui testi latini e greci e si appassiona alla lettura dei grandi autori classici, ma anche degli autori moderni, come Alfieri, Rousseau e Foscolo.

Gli si apre un mondo di interessi nuovi e sente il bisogno di ampliare le proprie conoscenze attraverso la frequentazione di ambienti diversi rispetto alla chiusa atmosfera di Recanati.

L’amicizia con Pietro Giordani, conosciuto nel 1818, aumenta il suo desiderio di rendersi noto presso gli ambienti letterari fiorentini e di sottrarsi al rigido ambiente della casa di famiglia.

Nel 1819 progetta la fuga che, tuttavia, viene sventata dal padre.

Il poeta si ritrova deluso e amareggiato e il suo stato d’animo contribuisce alla conclusione della sua formazione ideologica nella direzione di una visione pessimistica dell’esistenza.

Nella filosofia leopardiana e nella sua visione della vita, cruciale è la teoria del piacere: l’uomo è continuamente alla ricerca del piacere, ossia della felicità.

Questa ricerca tuttavia è inutile in quanto l’uomo è destinato a non trovare mai appagamento al proprio desiderio.

La causa di ciò risiede nel fatto che egli aspira ad un piacere infinitonel numero, eterno nella durata e immenso nella vastità. Ma come è possibile – si chiede il poeta – aspirare ad un piacere infinito, eterno e immenso in una realtà finita, passeggera e limitata come quella in cui siamo immersi?

La risposta è irrimediabilmente negativa: non è possibile che nella realtà l’uomo possa trovare la felicità, che pertanto rimane solo nella sua immaginazione.

Sulla base di tale considerazione, Leopardi conclude che l’unica possibilità di felicità risiede nelle illusioni, quelle care illusioni che la natura propone all’uomo nell’età della giovinezza – quando egli immagina una vita felice – ma che frantuma irrimediabilmente non appena si affaccia l’età adulta.

È quell’arido vero che la natura – diventata madre matrigna – rivela per rendere l’uomo consapevole del proprio destino di infelicità.

La felicità risiede nell’ignoranza, nell’immaginazione, tanto che si può affermare che l’uomo primitivo e l’uomo antico erano felici perché ignoravano il vero e interpretavano la vita e la realtà attraverso il confortante ricorso al mito.

Con il passare dei secoli l’uomo, attraverso il dominio della ragione, ha scoperto il vero e si è reso conto che vive per essere felice, ma che la felicità non può mai essere raggiunta.


Domenico Vescia


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