Nel libro terzo delle Metamorfosi, Ovidio propone la figura di Narciso, protagonista di miti che presentano versioni diverse, ma con un nucleo comune: la possibilità di ripiegarsi talmente su di sé, da giungere all’annullamento di sé.
Narciso, figlio del dio fluviale Censo e della ninfa Lirope, un giovane di straordinaria bellezza, ma non ne è consapevole.
L’indovino Tiresia, consultato dalla madre dopo il parto, aveva sentenziato che egli sarebbe vissuto fino al momento in cui non fosse diventato consapevole di sé.
Nel libro terzo delle Metamorfosi, Ovidio propone la figura di Narciso, protagonista di miti che presentano versioni diverse, ma con un nucleo comune: la possibilità di ripiegarsi talmente su di sé, da giungere all’annullamento di sé.
Narciso, figlio del dio fluviale Censo e della ninfa Lirope, un giovane di straordinaria bellezza, ma non ne è consapevole.
L’indovino Tiresia, consultato dalla madre dopo il parto, aveva sentenziato che egli sarebbe vissuto fino al momento in cui non fosse diventato consapevole di sé.
Appassionato di caccia, il giovane Narciso incontra, un giorno, sui monti, la bella ninfa Eco che si innamora perdutamente di lui. Egli, tuttavia, la respinge: si ritiene troppo bello per cedere alle lusinghe della fanciulla che si consuma dal dolore e vede il suo corpo separarsi dalla sua voce.
A causa di una punizione scagliata da Giunone, la povera ninfa si riduce a semplice voce e può solo rimandare suoni e parole emessi da altri.
Ovidio narra anche di un dialogo amoroso tra la bella Eco e Narciso: ella tuttavia può soltanto riecheggiare le parole del giovane che, indignato, fugge da lei. Il destino si accanisce ancora una volta sulla ninfa che subisce una metamorfosi e si trasforma nel fenomeno dell’eco.
Ma ecco che entra in gioco la terribile Nemesi, dea della giustizia che, impietositasi della triste sorte di Eco, decide di vendicarla. Conduce pertanto Narciso ad una fonte limpidissima:
C’era una chiara sorgente, dai limpidi flutti d’argento,
mai sfiorata neppure da pastori o da capre sui monti
al pascolo, o da altro bestiame, né mai intorpidita da uccelli,
o da fiere o da rami caduti dagli alberi,
cinta da un’erba nutrita dall’acqua vicina
e da un bosco che sbarra ogni sole, qualsiasi calore.
Il bel Narciso è attirato dalle pure acque di quella sorgente e non può fare a meno di avvicinarsi per ristorarsi e detergersi dal sudore della caccia. Tuttavia succede qualcosa di imprevisto:
Il ragazzo si getta disteso sull’erba, attratto dalla fonte
e dal luogo stupendo, spossato dal caldo e più dalla caccia bruciante.
Si prova a calmare la sete, e cresce una sete diversa.
Gli appare un riflesso bellissimo, bevendo, e ne perde la testa: lo coglie
l’amore di un’ombra che è spoglia di un corpo. La prende per corpo, ma
è acqua soltanto.
È il momento dello svelamento dell’oracolo pronunciato dall’indovino Tiresia. Per la prima volta Narciso si vede e diviene consapevole della sua bellezza.
Appare a se stesso un miracolo, e immobile fissa la faccia
che è sua, e che somiglia a una statua scolpita nel marmo di Paro.
Sdraiato per terra contempla le stelle gemelle degli occhi,
i capelli degni di Bacco, degni di Apollo,
le guance infantili, il collo d’avorio, la grazia del volto,
il rossore mischiato alla neve,
e ammira ogni singolo tratto che rende lui stesso mirabile.
Ogni tratto del suo viso gli appare straordinariamente bello ed egli si invaghisce dell’immagine riflessa di sé. Si ama follemente e sente nascere una passione travolgente.
Quell’immagine deve diventare ad ogni costo sua, deve impossessarsi di sé, deve appagare il suo desiderio, deve abbracciare e baciare l’altro che crede di trovarsi di fronte.
Si illude, e vagheggia se stesso: è attratto dall’altro, e lo attrae;
si cerca, e il se stesso lo cerca: si infiamma del fuoco che ha acceso.
Con mille inutili baci, ribacia la fonte ingannevole,
immerge le braccia nell’acqua per mille volte, e gli pare
di stringerle al collo dell’altro, che è lui, ma non giunge a toccarsi.
Che cosa abbia visto non sa, ma brucia per quello che ha visto:
un unico inganno gli illude e scatena lo sguardo.
È tutto un inganno: non vede, non bacia e non abbraccia nessuno. È solo un’inconsistente immagine riflessa quella che si trova di fronte, un fantasma pronto a fuggire, dopo aver dato vita ad un’illusione.
Ingenuo, a che scopo inseguire fantasmi fuggevoli?
Quello che cerchi non c’è; quello che ami lo perdi
solo a voltarti. Non è che un riflesso, quest’ombra che vedi.
Di suo non ha nulla: ti segue e si ferma con te,
con te si allontana, se mai riuscirai ad allontanarti.
Quello che cerchi, Narciso, non c’è: ecco il vero centro del mito.
Ami te stesso, ma – in realtà – non ami nessuno perché non si può amare ciò che è solo proiezione di sé. Non si può amare ciò che non è altro da sé o, come dice Ovidio – ciò che di suo non ha nulla.
Tu, Narciso, ti sei invaghito di te stesso e, quindi, ti sei invaghito del nulla. Protendi le tue braccia perché vorresti stringere qualcuno su cui far posare il tuo amore, ma le tue braccia ritornano a te, ti chiudono in te, ti imprigionano all’interno di te stesso e ti soffocano.
Caro Narciso, hai inaridito la tua vera essenza: siamo fatti per aprirci agli altri, per costruire relazioni, per amare chi è altro da noi, per incontrare persone, non proiezioni di noi stessi.
Quella di concentrarci su noi stessi è una tentazione sempre alle porte, ma siamo chiamati a respingere l’inganno per non inaridire la nostra stessa essenza: siamo fatti per l’incontro, siamo chiamati a tessere legami.
Tu Narciso non l’hai capito, e ti sei condannato.
Di lì non riesce a distoglierlo né fame né voglia di sonno:
sdraiato sull’ombra dell’erba
contempla il bellissimo inganno, ma senza appagarsi lo sguardo:
per gli occhi gli passa la morte.
Un torpore mortale ti ha raggiunto, ti ha bloccato e imprigionato e … ti ha condotto alla morte.
Forse sei annegato in quella fonte, perché ti sei spinto troppo oltre nel tentativo di abbracciare l’ombra di te riflessa nelle acque.
Certamente ti sei annullato perché chi non costruisce relazioni realmente autentiche e autenticamente reali si condanna al nulla e muore istante dopo istante.
Domenico Vescia