Il “mito” non è semplicemente un racconto fantastico attraverso il quale gli antichi tentavano di spiegare la realtà e i suoi fenomeni. In senso stretto i miti hanno a che fare con la relazione tra la sfera umana e quella divina, con le origini e il destino finale dell’uomo.
Come ha messo in evidenza il filosofo tedesco Josef Pieper, il mito utilizza un linguaggio simbolico dal momento che non vuole narrare fatti storici, ma verità esistenziali, che hanno valore per la vita dell’uomo.
I primi cristiani, certamente molto aperti sul versante culturale, hanno utilizzato i miti della tradizione e li hanno rivisitati perché proprio quei racconti e i loro simboli potessero aiutare a comprendere meglio le verità rivelate dalla Sacra Scrittura e gli insegnamenti degli apostoli.
Tra i miti capaci di insegnare qualcosa di essenziale per la vita si trova quello relativo alla tragica morte di Orfeo, narrata nelle Metamorphoses di Ovidio.
Orfeo è un aedo, un cantore di professione, un compositore di canti epici da recitare davanti ai sapienti, ai personaggi più ragguardevoli, durante i banchetti dei nobili o sulle pubbliche piazze.
Originario della Tracia, è figlio del re Eagro e di Calliope, la Musa della poesia epica. Il nome Calliope significa “colei che ha una bella voce”, la stessa che la Musa trasmette a suo figlio.
Il canto di Orfeo, infatti, è talmente sublime che ammansisce le belve più feroci e ferma tempeste implacabili. Per questo motivo partecipa all’impresa degli Argonauti per la conquista del vello d’oro. Ha in sposa la bellissima ninfa Euridice che però muore morsa da un serpente, nel tentativo di resistere alle insidie del pastore Aristeo.
Orfeo non si rassegna al dolore per la perdita della sua Euridice e tenta l’impossibile: scende negli inferi per strapparla alle tenebre. Con il suo canto placa Cerbero, il mostro posto a custodia dell’oltretomba e riesce ad impietosire persino il dio Ade e la sua sposa Persefone.
Ade concede ad Orfeo di riportare con sé Euridice, ma a un patto: egli dovrà condurla verso il mondo dei vivi, ma non dovrà in nessun modo girarsi a guardarla.
I due iniziano a salire e stanno già intravvedendo la luce, quando Orfeo, temendo di aver perso la sua sposa, si volta quasi per istinto, per accertarsi che lei lo stia seguendo.
La condizione posta da Ade si frantuma: subito Euridice svanisce in una sorta di nuvola e Persefone manda Hermes a riprenderla e a comunicare ad Orfeo che l’ha persa per sempre.
Ad illustrare la vicenda è questo stupendo bassorilievo che rappresenta Orfeo, Euridice ed Hermes, un’opera marmorea, copia romana del I secolo da originale greco del V secolo a. C., conservata nel Museo Archeologico di Napoli.
Al centro è rappresentata Euridice, accanto al suo Orfeo, raffigurato alla nostra destra. Sulla sinistra invece si trova Hermes.
La scena scolpita immortala l’ultimo istante, quello che precede il ritorno definitivo della ninfa nel regno dei morti. Hermes sembra che svolga contro voglia il suo compito, nonostante abbia già la sua mano intrecciata a quella di Euridice, con il piede destro già rivolto all’indietro.
Orfeo ha scostato delicatamente il velo della sua amata per guardarla in volto per l’ultima volta e, con gesto dolcissimo, accarezza la mano che lei, affettuosamente, ha appoggiato sulla sua spalla.
Alla sua sinistra tiene la lira, ormai inutile; lo strumento ormai accompagnerà solo il suo dolore e le sue lacrime.
Ma torniamo alla vicenda….
Orfeo cade in preda ad una tristezza mortale. Si ritira sulle rive dello Strimone, dove vuole restare in isolamento, senza vedere nessuna delle donne che pure desiderano stare con lui. Vuole solo piangere per tutta la sua esistenza.
Quello che succede durante questo isolamento è raccontato nel libro XI delle Matamorfosi del letterato latino Ovidio: una vicenda violenta, dai tratti raccapriccianti, con un esito stupefacente, che costituisce proprio l’insegnamento da ricavare.
Le Baccanti sono in preda al furore bacchico e scatenano la loro violenza contro Orfeo: gli lanciano contro bastoni e sassi e uccidono tutti gli animali che, incantati dalla soave voce dell’aedo, gli fanno corona. Con mani grondanti di sangue si rivolgono direttamente contro di lui:
lo assalgono […] queste scagliano zolle, quelle rami strappati dagli alberi, e altre ancora pietre. Per caso – tanto perché al loro furore non mancassero armi – c’erano lì dei buoi che rivoltavano la terra tirando il vomere ben affondato, e non lontano dei muscolosi contadini vangavano i duri campi. Questi fuggirono al vedere quella torma, abbandonarono le loro armi – gli attrezzi – e per la campagna divenuta di colpo deserta rimasero sparsi sarchielli e pesanti rastrelli e lunghe zappe. Le forsennate si precipitarono a prendere questi oggetti, e fatti a pezzi i buoi che le minacciavano con le corna, tornarono di corsa ad uccidere il poeta […]. Lo ammazzarono, sacrileghe, e da quella bocca ascoltata perfino dai sassi e compresa dalle bestie commosse, o Giove!, l’anima si disperse, con l’ultimo respiro nel vento.
Quelle delle Baccanti sono azioni che rappresentano l’esatto opposto rispetto a quello che Orfeo suscitava: con il suo canto egli creava armonia e serenità, placava ogni violenza, faceva terminare tutto ciò che appariva scomposto, disordinato. Le urla e il furore delle baccanti producono l’esatto contrario: disordine, sofferenza, pianto, urla … Esse si accaniscono contro Orfeo: vogliono farlo tacere per sempre.
Sembra che il canto dolcissimo di Orfeo sia vinto.
Ecco il lutto, la disperazione.
Come è possibile che tutto quello che Orfeo ha introdotto con il suo canto possa essere finito per sempre?
Sembra che la bruttezza sia l’ultima parola.
Il solo gesto pietoso sembra essere quello di affidare al fiume Ebro la testa e la lira del cantore.
Ed ecco (prodigio!), mentre filano via in mezzo alla corrente, la lira suona un non so che di triste, la lingua morta mormora tristemente: triste l’eco risponde dalle sponde. E portate finalmente al mare lasciano il fiume della loro Tracia, e vanno ad arenarsi sulle coste di Lesbo, dove è la città di Metimna. Qui, un feroce serpente, si avventa contro la testa sbattuta su quella spiaggia straniera, contro i capelli grondanti di stille rugiadose; ma all’ultimo istante Febo interviene, e blocca il serpente che si appresta a mordere, congelandone in pietra le fauci spalancate, indurendolo così com’è, a bocca aperta.)
Ecco il prodigio: la lira, seppure debolmente, continua a suonare; la lingua di Orfeo, seppure flebilmente, continua ad emettere suoni gradevoli.
Ecco il centro della vicenda mitica: NON PUO’ AVERE FINE CIO’ CHE E’ BELLO e PRODUCE BELLEZZA.
Sulle coste di Lesbo un serpente fa un ultimo tentativo di annientare Orfeo e la sua opera, ma inutilmente. Interviene Apollo, dio della poesia, della musica, di tutto ciò che è armonia e produce bellezza.
Il dio agisce per garantire la possibilità che la poesia possa continuare a far sentire la sua voce tra gli uomini.
L’ombra di Orfeo discende sottoterra. Egli riconosce uno per uno i luoghi che già ha visto e, cercandola per i campi delle anime pie, ritrova Euridice e la abbraccia appassionatamente. E qui passeggiano insieme: a volte, accanto; a volte, lei lo precede e lui la segue¸ altre volte è Orfeo che cammina davanti. E ormai senza paura di perderla, si gira indietro a guardare la sua Euridice)
La conclusione segna l’esaltazione, il trionfo, del BELLO e del BENE: Orfeo ritrova la sua Euridice e questa volta può guardarla per l’eternità, senza che nessuno possa strapparla ancora da lui.
E così Orfeo diviene il simbolo del fatto che NON SI PUO’ DISTRUGGERE LA BELLEZZA
Domenico Vescia