GIOTTO, IL PIANTO DELLE CLARISSE (Basilica Superiore di Assisi)

Un omaggio che ha il sapore della gratitudine

GIOTTO, IL PIANTO DELLE CLARISSE

"Le turbe che erano convenute, trasportando verso la città d'Assisi con rami d'alberi e moltitudine di ceri accesi il sacro corpo fregiato delle celesti gemme, lo presentarono alla vista della beata Clara e delle sacre vergini."

San Bonaventura da Bagnoregio, Legenda Maior

GIOTTO, IL PIANTO DELLE CLARISSE

Francesco era morto presso la Porziuncola la sera del 3 ottobre. Prima di spirare si era fatto deporre “nudo sulla nuda terra”, come testimonia Tommaso da Celano nella Vita prima, e aveva chiesto di lasciare giacere il suo corpo per il tempo necessario “a percorrere un miglio”. Aveva inoltre domandato di essere sepolto sul Colle dell’Inferno, fuori dalle mura di Assisi, dove venivano inumati i malfattori, lo stesso luogo dove ora sorgono la Basilica Inferiore e quella Superiore.

L’affresco denominato Il pianto delle clarisse – ventitreesimo dei 28 riquadri del Ciclo delle Storie di san Francesco - evoca un momento dei semplici funerali del Santo: la traslazione del suo corpo dalla Porziuncola al Colle dell’Inferno. Prima di giungere alla meta, il mesto corteo transita presso il monastero dove vivono Chiara e le sue compagne ed effettua una sosta per consentire alle monache di onorare il corpo di colui che ne ha ispirato il carisma. E così il gesto diventa l’occasione per un’altra attestazione di affetto e di devozione.

Una persona sale addirittura su un albero per poter vedere il corpo del Santo. Giotto, che certamente è l'ideatore anche se non necessariamente l'unico esecutore dell'affresco, escogita lo stesso dettaglio che, pochi anni più tardi, utilizzerà nella padovana Cappella degli Scrovegni, per raccontare l'ingresso di Gesù in Gerusalemme. Si tratta di un particolare interessante, che non risponde solo all'intenzione di mettere in scena una persona talmente curiosa (o devota) da arrampicarsi su un albero, ma che ha lo scopo di avvertire l'osservatore: Se vuoi renderti conto di chi è stato Francesco, di quali altezze ha raggiunto la sua spiritualità, di quale valore ha avuto la sua testimonianza per la Chiesa e per il mondo, devi elevarti. Non è possibile, infatti, accostare la sua santità con una prospettiva limitata o, addirittura offuscata, come quella che sperimenta chi sta in mezzo alla folla e ha lo sguardo schermato da altre presenze.

Il pittore dà grande rilevanza all’albero e lo distingue nettamente dallo sfondo: vuole che l’attenzione dell’osservatore parta proprio da quel particolare, nella parte sinistra del riquadro. La figura che si arrampica oltretutto non è statica: non si è accontentata di guadagnare una posizione sopraelevata che gli consenta di vedere; continua a salire, come se volesse raggiungere la cima. Non può fermarsi, come non ha subito arresti il cammino di santità di Francesco d'Assisi.

Al di sotto di quell'uomo, davanti all'albero, si trovano fronde, sulla sinistra, e alte torce, sulla destra, a ricordo di quei rami d’albero di quella moltitudine di ceri, di cui parla San Bonaventura nella Legenda maior.

In posizione avanzata sono raffigurate le persone che partecipano al funerale del Santo e lo accompagnano verso il luogo della sepoltura.

Sulla destra, in primo piano, il vero protagonista: Francesco defunto che transita davanti al monastero delle clarisse, quasi a riproporre, per l’ultima volta, una delle sue frequenti visite a Chiara e alle sorelle. Il corpo del Santo è adagiato su una semplice barella, rivestita però di un drappo finemente decorato a motivi geometrici. Francesco aveva voluto morire sulla nuda terra e alla nuda terra sta tornando, ma la morte è momento solenne, che non va banalizzato, bensì solennizzato. Consente l'incontro con il Signore, quel Cristo che Francesco aveva tanto cercato e a cui interamente si era donato.

Chiara esce dal monastero e va incontro a Colui che le aveva consentito di scoprire la sua vocazione, di placare le sue inquietudini; le aveva dato il coraggio di opporsi ai progetti della sua famiglia per trovare pace nella completa donazione a Dio, in una vita di preghiera, attorniata dalle compagne di cui poteva essere esempio e guida.

Chiara si fa incontro a Francesco: è addolorata, ma non disperata. Si china su di lui, solleva delicatamente il suo capo e gli rivolge un ultimo sguardo: i loro occhi si erano spesso incontrati e avevano scoperto – l’uno nello sguardo dell’altra – la luce della grazia divina. Ella ha il capo attorniato dell’aureola, constatazione di una santità che, dopo la sua morte, sarà ufficialmente proclamata dalla Chiesa.

La monaca che la accompagna, bacia – affranta – la mano del Santo. Altre stanno uscendo dalle porte della Chiesa, con le mani giunte, il capo chino, il volto addolorato: si sono votate ad una vita di clausura, ma l’omaggio al corpo di Francesco è un’azione di preghiera, sacra e solenne come quelle che svolgono nel coro del loro monastero. Due di loro si affacciano dal portale centrale e, accingendosi ad uscire, scambiano qualche parola.

La facciata gotica della chiesa, posta in obliquo per conferire profondità alla scena, è imponente e solenne, tanto da occupare più della metà della rappresentazione. Forse Giotto prende spunto dal Duomo di Orvieto o fa riferimento ad uno dei progetti per la Basilica Superiore o per la Cattedrale di Firenze.

Certamente lo sguardo dell’osservatore si posa su quella facciata e non può che rimanere affascinato dalla sua bellezza e dalla sua armonia, come non può non sentirsi attirato dall’esistenza e dalla testimonianza di Francesco e desiderare di imitare la serenità della sua vita pienamente realizzata.

Domenico Vescia