Figure dantesche

LA PORTA dell’INFERNO, IL PRIMO dei MOSTRI INFERNALI

Dante Alighieri porta dell'inferno

Che l’infermo dantesco pulluli di creature bestiali e feroci è cosa risaputa. Ciò che è fondamentale è comprendere quale sia la loro funzione.

Perché Dante, nella prima cantica, indulge al macabro e vuole impressionare i lettori attraverso la presenza di figure dall’aspetto deforme e raccapricciante, capaci di solleticare il gusto del macabro? La risposta è immediata: si tratta di mostri.

Ma cosa è un mostro? Per rispondere occorre soffermarsi sull’autentico significato della parola mostro, ricorrendo alla sua etimologia. Il termine deriva dal verbo latino monère che significa “avvertire”, “ammonire”, “mettere in guardia” rispetto ad un pericolo, un’azione dannosa o anche alla mancata esecuzione di un dovere.

Il mostro, pertanto, racchiude un avvertimento e, nello stesso tempo, un insegnamento riguardo alla vita e alle scelte ad essa connesse. Ecco la ragione per cui Dante abbonda di fantasia proprio nell’inferno: si tratta, infatti, della cantica che ha lo scopo principale di ammonire, mettere in guardia contro la possibilità di una vita naufragata, sprecata, condannata.

A doverci spaventare – sembra dire Dante – deve essere la bruttezza del peccato e del circuito di male che esso determina. Cosa può contribuire a rendere l’idea se non la presenza di un mostro che si imponga all’immaginazione?

Il primo mostro che Dante incontra dopo l’uscita dalla selva oscura è la porta dell’inferno.

Siamo all’inizio del Canto III che si apre proprio con le tre terzine che coincidono con le parole di colore oscuro che sono scritte al sommo della porta stessa:

Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ’l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate

È scuro il colore con cui tali parole sono scritte, ma certamente è oscuro anche il loro significato, dal momento che Dante deve chiedere spiegazioni alla sua guida Virgilio.

A parlare è apparentemente la porta stessa che, attraverso l’anafora della preposizione “per” e del pronome personale “me” dichiara di essere il mezzo attraverso il quale transitano coloro che sono destinati alla città dolente, le anime destinate all’etterno dolore, la gente perduta, dannata.

In realtà per comprendere a fondo ciò che l’iscrizione comunica occorre far riferimento ad un uso antico. L’artigiano che portava a termine un vaso o qualsiasi manufatto, poneva spesso un’iscrizione che rendeva apparentemente “parlante” l’oggetto.

La porta dell’inferno “parla”. Ma in realtà è il suo fattore a comunicare. La divina podestate – Dio Padre -, la somma sapienza – Dio Figlio – e ‘l primo amore – Dio Spirito Santo: è la Trinità Santissima ad aver realizzato quella porta, subito dopo aver creato cose eterne. Anzi, Dio ha voluto che essa abbia durata eterna per motivi di giustizia.

Nel piano di Dio – come Dante renderà evidente trattando dell’inconsistenza degli ignavi – all’uomo è lasciata la responsabilità di compiere una scelta per la propria vita: se realizzarla nel bene o se farla naufragare nel male. Non esiste spazio per la neutralità e non esistono possibilità collocabili sul medesimo piano: c’è solo l’abisso della libertà che trova la piena realizzazione nella conformazione alla vocazione alla felicità nell’amore e nella verità, secondo il piano di Dio.

Ma il vertice di ciò che la porta dichiara si trova alla fine del verso 8: Io etterno duro. Ecco le parole veramente spaventose che rendono orribilmente mostruosa la porta. Essa – manufatto eterno – immette in una condizione che non può contare su una soluzione di continuità, in una città dove si soffre eternamente, dove si prova un dolore che non ha speranza di passare, dove dimorano anime dannate per l’eternità.

La realtà di un dolore eterno è disumana, è la contraddizione più drammatica di ciò per cui l’uomo è creato: la beatitudine eterna, una felicità senza fine, una carità destinata a rimanere per sempre. Una sofferenza eterna è disumana ed è contraria alla ragione che, naturalmente, è volta alla ricerca del bene.

E così la porta dell’inferno non è una “creatura” mostruosa ma è un mostro nel vero senso della parola: ammonisce riguardo a ciò che è contro l’uomo, alla sua verità, al suo autentico bene.


Domenico Vescia


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