Figure dantesche

GLI IGNAVI, ovvero LA VITA E' UNA FACCENDA SERIA

Dante Alighieri gli ignavi

Sono le anime di coloro che non hanno vissuto.

Si sono - semplicemente e spregevolmente - lasciati vivere, hanno lasciato solo che il loro cuore battesse e che il sangue scorresse nelle loro vene, ma non che il cuore battesse emozioni, la mente coltivasse pensieri, i piedi muovessero passi e le mani accogliessero incontri.

Hanno semplicemente vagato, mai diretti ad un fine, mai orientati ad un bene.

La loro esistenza terrena è stata talmente inconsistente da non meritare nessun ricordo.

«Fama dì loro il mondo esser non lassa»: come potremmo ricordarci di chi ha vissuto “sanza ‘nfamia e sanza lodo”?

Il problema che essi mettono in luce è esistenziale e, nello stesso tempo, razionale. Come è possibile un’esistenza “disancorata”, priva di rapporto con la vita stessa e svuotata di ogni possibilità? E come può una persona dotata di ragione non pensare che la vita ci è data perché sia realizzata e raggiunga il suo scopo, ovvero la felicità?

Quella degli ignavi è la prima categoria di abitatori della cavità infernale. Il poeta li colloca all’inizio del suo percorso attraverso i tre regni ultraterreni, come il primo e più importante monito. Che nessuno si lasci neppure sfiorare dalla tentazione di essere come loro, anzi di “non essere” come loro. In realtà la loro é stata una non - esistenza, il loro quotidiano è stato un non vivere. Ogni giorno hanno percorso passi che li hanno, assurdamente, condotti verso il non - senso. Non sono stati nessuno e

la lor cieca vita è tanto bassa,

che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte (vv. 47, 48)

Essi, per la logica del contrappasso, sono costretti a correre per l'eternità, dal momento che, in vita, hanno condannato se stesso all’immobilismo.

Rincorrono un'insegna bianca, una sorta di bandiera che non consente l'identificazione con nessun ideale. Del resto, per professare un principio, un valore, un'appartenenza, occorre essere disposti alla fatica e al sacrificio, come ben sanno quanti lottano per un ideale politico.

Sono tormentati da mosconi e da vespe che, con il loro stimulum - il loro pungiglione - li costringono a considerare quanto sia dannoso non lasciarsi "stimolare" da niente e da nessuno.

Il loro volto è rigato di quel sangue, che è simbolo del sacrificio e che ricorda la loro indisponibilità a sacrificarsi per qualcuno o qualcosa.

Piangono perché finalmente e tragicamente si rendono conto della miseria della loro condizione. Ma neppure quel pianto li redime: le lacrime eterne che sgorgano dai loro occhi sono "bevute" a’ lor piedi da fastidiosi vermi che mostrano loro quanto tutto il loro essere sia degno di disprezzo.

Certamente non meritano il Paradiso, dal momento che non hanno mai compiuto nulla d bene, ma non sono neppure all’altezza dell’inferno, poiché non hanno contaminato nulla con il male. Vivaci ed efficaci i versi con cui Dante esprime il destino di rifiuto “cosmico” da cui gli ignavi sono colpiti e che, paradossalmente, ribalta la condizione di immobilismo che li ha contraddistinti sulla terra.

Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli".

Il Regno dove tutto è splendore non può, costitutivamente, ammettere chi non ha ricercato, nella propria esistenza, almeno un raggio di quella bellezza che è donata da Dio a chi è disposto a sceglierla e di giocare la sua esistenza su di essa.

All’estremo opposto sta l’aura sanza tempo tinta, eternamente oscura: la cavità infernale dominata dal buio, dall’orrore, dalla disperazione … in una parola, dalla bruttezza. I rei, che, per la misteriosa legge del male, godono per la presenza di ogni dannato, non possono trarre nessuna gloria da chi non ha scelto la degradazione e il peccato.

Se il Paradiso li “butta giù”, l’inferno li “rimanda su” e così i poveri ignavi sono condannati a restare nell’indeterminatezza per l’eternità e ciò contribuisce a renderli spregevoli. Di espressioni capaci di sottendere il disprezzo il Canto III è ricco. Virgilio, prima ancora che il suo discepolo Dante possa rendersi conto di che anime siano quelle che sta incontrando, lo ammonisce dicendo che non vale neppure la pena di perdere tempo a ragionare di loro: basta un veloce sguardo e subito via per occuparsi di ciò che merita più attenzione.

[…] non ragioniam di lor, ma guarda e passa (v. 51)

Ma perché una mancata scelta è causa di tanto disprezzo? È vero, diremmo noi abituati alla tiepidezza, che gli ignavi non hanno scelto il bene, ma del resto non hanno neppure preferito il male. La risposta più eloquente e autorevole, è data dalle parole, pesanti come macigni, contenuti nel capitolo 3 del Libro dell’Apocalisse (15-16). Scrivendo alla Chiesa di Laodicea su comando esplicito di Dio, l’autore del Libro si esprime così:

Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.

L’ignavia è la condizione di chi non è né caldo, né freddo e, proprio per questo, semplicemente non é.

L’ignavo vede la propria vita come un problema e non come una risorsa;

come una condanna e non come un'occasione,

come un peso e non come una responsabilità.

L'ignavo non ha capito che la vita è una faccenda da prendere sul serio.

Domenico Vescia


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