SENZA ALLORO, MA NELLA GLORIA CELESTE

Giotto e il più antico ritratto di Dante, al Bargello di Firenze.

Dante Alighieri

È un confronto tra due giganti, quello che Dante stabilisce nel canto XI del Purgatorio.

Entrambi superano i loro predecessori ed entrambi raggiungono il vertice nell’arte di propria competenza.

Il primo è Giotto di cui Dante afferma la superiorità rispetto al maestro Cimabue, tanto da oscurarne la fama:

Credette Cimabue nella pittura

tener lo campo, e ora Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura.

Il secondo è il poeta stesso che si confronta con Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti, gli interpreti migliori di quello Stil Novo che ha fatto in modo che il volgare raggiungesse un’altissima capacità espressiva, tanto da aver ormai guadagnato la dignità di lingua.

Si può affermare – scrive Dante - che Cavalcanti abbia superato Guinizzelli, ma è ormai nato colui che li ha superati entrambi e ha composto un’opera ineguagliabile: proprio lui, l’Alighieri, che con la Commedia ha raggiunto il vertice della bellezza, della musicalità e dell’espressività del volgare.

Così ha tolto l'uno a l'altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l'uno e l'altro caccerà del nido.

Così afferma Dante.

Non è possibile affermare con certezza che Dante e Giotto si siano personalmente conosciuti, anche se la cosa è probabile, Giotto nasce nel 1267, due anni dopo Dante e muore nel 1337, sedici anni dopo il poeta: si tratta quindi di due contemporanei che avrebbero certamente potuto incontrarsi.

Benvenuto da Imola, tra i primi commentatori della Commedia nella seconda metà del 1300, afferma che il poeta e l’artista si siano conosciuti a Padova, nella Cappella degli Scrovegni, accomunati dall’interesse per il giudizio finale e per la sorte dei dannati che Giotto stava dipingendo nella controfacciata della Cappella. È documentata la permanenza di Dante a Treviso, tra il 1304 e il 1306.

È pertanto possibile che egli si sia recato a Padova ed abbia visto Giotto al lavoro, ma anche questo non può essere affermato con evidenza. Certamente però i due erano l’uno al corrente della fama dell’altro ed entrambi avevano avuto l’opportunità di ascoltare le lodi reciproche.

Nel 1321 Giotto e la sua bottega approdano al Palazzo fiorentino del Bargello, incaricati di contribuire alla decorazione della Cappella della Maddalena, o del Podestà, il luogo in cui sostavano i condannati a morte, prima della loro esecuzione.

Data la particolare destinazione del luogo, viene realizzata una serie di affreschi sul tema del Giudizio Universale, riportati alla luce nel 1840. La critica ha a lungo dibattuto se Giotto abbia messo a punto i disegni preparatori o se abbia effettivamente dipinto quelle pareti. Allo stato attuale delle ricerche, tuttavia, è possibile affermare che, accanto ai disegni, egli abbia effettivamente realizzato qualche figura.

Sulla parete di fondo della Cappella trova posto la rappresentazione del Paradiso, dove – tra numerose figure – viene collocato Dante Alighieri, già morto al momento della realizzazione dell’opera.

Egli si trova tra una schiera di beati, che guardano tutti nella stessa direzione, probabilmente verso uno dei cori angelici o verso una figura che sta apparendo.

Mostra un profilo dai tratti marcati.

Il naso è pronunciato, ma non è raffigurato con i tratti adunchi, con cui sarà tramandato il profilo del poeta.

Indossa una veste di colore rosso vivace e porta il copricapo, anch’esso rosso, ma foderato di bianco: si tratta dell’abbigliamento dei notabili dell’epoca. Il colore rosso, nell’iconografia medievale, indica la nobiltà, l’eccellenza, l’unicità, quella che – secondo Giotto – va certamente riconosciuta al poeta, soprattutto nella sua patria, che tante sofferenze gli ha procurato.

Lo sguardo è intenso e concentrato, come nella ritrattistica successiva.

Davanti al petto regge un vistoso libro, allusione alla Commedia, espressione principale del suo genio.

È interessante chiedersi il motivo per il quale il poeta non indossi la tradizionale corona d’alloro, riconoscimento della sua dignità di poeta e, nello stesso tempo, della sua fama. È evidente che l’omissione è voluta, dal momento in cui l’intenzione dell’autore è quella di rappresentare Dante tra gli spiriti eletti, per i quali non valgono gli attributi esterni, ma la profondità della virtù.

E così Giotto eternizza la figura di Dante, la cui opera forma un tutt’uno con il suo genio.


Domenico Vescia


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