Figure dantesche

MINOSSE, OVVERO LO SCIMMIOTTAMENTO DELLA MISERICORDIA

Dante Alighieri Minosse

Stavvi Minòs orribilmente e ringhia.

Il verso evoca già qualcosa di terribile. A dare la sensazione di una presenza mostruosa contribuisce il suono determinato dal pronome enclitico "vi" (stav-vi), ma anche la doppia "r" che risuona sinistra in "orribilmente" e contribuisce ad evocare la sensazione di una ringhiata capace di esprimere la rabbia di chi la emette.

Il soggetto è il mitico re di Creta che Dante sceglie per il ruolo di giudice infernale.

Dalla vita in su Minosse ha aspetto umano; nella parte inferiore del corpo appare come un serpente dalla lunga coda.

Il suo è un compito importante, definito da Dante - al v. 18 – “cotanto offizio”.

Innanzitutto Minosse ascolta la confessione dei dannati

Dico che quando l’anima mal nata

li vien dinanzi, tutta si confessa (vv. 7-8)

e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d’inferno è da essa;

cignesi con la coda tante volte

quantunque gradi vuol che giù sia messa. (vv. 9-12)

È un esperto di peccati e, sulla base della sua profonda cultura del male, è in grado di stabilire quale sia il settore della cavità infernale più adatto per l’anima che sta sottoponendo al vaglio. Come un vero giudice conosce a fondo le tipologie e le modalità delle sanzioni previste per ognuna delle colpe commesse dai dannati e, dopo aver adeguatamente valutato ogni possibilità, emette prontamente la sentenza e stabilisce la pena. Non parla, ma compie un gesto eloquente, utilizzando quella parte del suo corpo mostruoso che più si adatta ad una sentenza che condanna ad un'eternità sofferente, a causa del male scelto e commesso in vita. A muoversi è la sua coda serpentina, avvolgente come solo il fascino del male può avvolgere la persona, stringente come sanno fare le spire della malvagità, soffocante come solo può essere il fallimento di un’esistenza.

La coda si attorciglia attorno al suo corpo per dare un segnale inequivocabile al dannato che, in piedi davanti a lui, non può fare altro che contare con precisione, per conoscere il numero corrispondente al cerchio presso il quale soffrirà per l'eternità.

È questo l'esito di una confessione certamente strana, ma che conduce ad un destino tanto drammatico.

Leggendo in profondità le terzine riferite all’offizio di Minosse, emerge l’interpretazione che è possibile ricavare dalla sua figura.

Egli altro non è che lo scimmiottamento della misericordia divina, oltre che delle forme e delle modalità attraverso le quali essa si esprime.

Innanzitutto egli esercita il suo ruolo in relazione a coloro che sono già condannati, dal momento che a comparire davanti a lui sono le anime che hanno già oltrepassato l’Acheronte, dopo aver lasciato ogni speranza nel momento in cui hanno varcato la porta dell’inferno.

La misericordia di Dio invece si manifesta come volontà di vita e di salvezza. Egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva: così afferma il Libro biblico del profeta Ezechiele. Davanti a lui non esistono persone destinate alla condanna, ma uomini che Egli chiama alla vita e ai quali offre infinite possibilità di salvezza.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.

Sempre dinanzi a lui ne stanno molte, afferma il testo al verso 13, in riferimento alle anime che si presentano davanti al giudice infernale. Esse costituiscono una sorta di massa informe, indifferenziata, dal momento che è composta da individui accomunati da una condanna che annulla ogni dignità. La scelta del male – sembra comunicare Dante – chiude ogni possibilità di realizzazione nel bene e, quindi, rende disumano e irriconoscibile ogni volto.

Davanti alla misericordia divina, al contrario, ogni uomo, per quanto peccatore, si sente guardato, compreso, perdonato, proprio perché portatore della dignità di figlio che, in quanto tale, può sempre contare su una possibilità di riscatto e di redenzione.

Minosse è profondo conoscitor de le peccata: ciò che egli possiede è una sorta di “cultura del male” che costituisce il suo centro di interesse, l’orizzonte a cui tende.

Chi dona perdono e rende possibile ad un altro un cambio di direzione per intraprendere una strada di vita è certamente conoscitor, come direbbe Dante, ma di misericordia. Potremmo pensare anche al ruolo di un sacerdote che amministra il Sacramento della Riconciliazione (la Confessione): egli deve conoscere profondamente l’animo umano e deve poter spalancare al penitente le infinite possibilità di redenzione che gli sono offerte. Deve essere certamente conoscitor, ma del perdono!

È interessante, inoltre, osservare la modalità attraverso la quale Minosse assegna il luogo della detenzione e della pena: attorciglia la sua coda attorno a se stesso, facendo in modo che il numero dei giri corrisponda a quello del cerchio destinato al peccatore che gli sta davanti. La dimensione nella quale il nostro giudice si pone è centripeta: la coda lo chiude dentro una sorta di spira che va di pari passo con il fatto che egli non parli. Minosse non conosce relazione, non concepisce nessuna forma di partecipazione verso il destino di chi gli sta davanti.

Sul versante opposto si colloca invece la misericordia, divina e umana. Essa conosce la dinamica delle braccia che si aprono per esprimere una relazione che è dono, offerta, vicinanza, sostegno…

La parola stessa misericordia significa “donare il cuore a chi è misero”, bisognoso, per il fatto stesso che necessita di perdono, di incoraggiamento, di accompagnamento.

Un semplice avverbio – quel giù nel verso 12 – dice infine tutta la tristezza del peccato: esso condanna, degrada, fa precipitare la persona nel baratro della tristezza, della bruttezza, del nulla. La misericordia, invece, porta su, verso le vette di ciò che è autenticamente umano, vale a dire la verità, la bellezza, il bene.

Domenico Vescia

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