L'importanza di Dante Alighieri nel panorama culturale italiano e mondiale è misurabile anche in base alla quantità e alla significatività delle opere che lo raffigurano. Non si tratta quasi mai di semplici ritratti, ma di rappresentazioni che propongono la figura del Sommo poeta attraverso precisi riferimenti alle sue opere e a ciò che esse esprimono.
È il caso del Ritratto di Dante Alighieri, realizzato ad olio, tra il 1522 e il 1523 da Agnolo Bronzino, uno dei più importanti artisti della Firenze del Cinquecento.
Il contesto in cui Bronzino opera è quello del cosiddetto Manierismo, la stagione artistica che si apre dopo gli irraggiungibili Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio e Michelangelo Buonarroti e che vede tra gli iniziatori Jacopo Pontormo, già allievo di Leonardo, accanto ad Andrea del Sarto e a Giovan Battista di Jacopo, detto Rosso Fiorentino. Pontormo è il più importante maestro di Agnolo Bronzino, a cui insegna il distacco dalla natura e l’uso di colori irreali, solcati da bagliori luminosi.
In effetti è tutta l’arte manierista a distaccarsi dalla natura e dalla rappresentazione fedele della realtà. A Pontormo, e quindi ad Agnolo Bronzino, interessano composizioni visionarie, nelle quali i personaggi assumono un valore allegorico: con le loro pose, i loro tratti fisici e i loro gesti, spingono l’osservatore alla riflessione, lo inducono a pensare a ciò che il personaggio insegna o al significato della sua presenza nel contesto in cui è rappresentato.
È proprio quello che accade al Ritratto di Dante Alighieri di Bronzino.
Secondo Giorgio Vasari, autore de Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori, l'opera fu commissionata al pittore dal banchiere fiorentino Bartolomeo Bettini che, per ornare un ambiente ragguardevole della propria casa, desiderava tre lunette con i ritratti di Dante, di Petrarca e di Boccaccio, i maggiori tra i “poeti che hanno con versi e prese toscane cantato d’amore”. È solo il ritratto dell’Alighieri ad esserci giunto, ritrovato in una collezione privata fiorentina, dopo essere stato a lungo considerato disperso.
Il poeta è seduto su uno spuntone di roccia. È rappresentato di scorcio, in modo che il busto, le mani e le braccia si avvicinino allo spettatore e pongano davanti ai suoi occhi il grande libro aperto e intenzionalmente esibito.
Il capo e il busto del poeta suddividono in due parti lo sfondo, scuro alla sinistra dell’osservatore e progressivamente più chiaro alla sua destra.
Il viso di Dante – riconoscibilissimo a causa del profilo caratterizzato dal naso adunco - si volge a destra, allontanandosi dalle tenebre e volgendosi alla luce.
Questi quattro elementi – libro, tenebre, luce e viso del poeta – costituiscono la chiave di lettura della composizione e ne individuano il significato. Il libro è evidentemente il testo della Commedia che narra il viaggio dantesco attraverso i tre regni ultraterreni: l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Nell’economia del poema, il viaggio non è un’azione avventurosa e neppure un contesto all’interno del quale intrecciare vicende: è l’immagine di un itinerario morale e religioso che porta dal buio del peccato, alla luce della grazia divina; è un percorso che porta a constatare la bruttezza del male e del vizio e la bellezza del bene e della virtù. È in definitiva un itinerario di redenzione e, nello stesso tempo, uno stimolo a condurre una vita retta, sulla base degli insegnamenti evangelici.
Ecco quindi il senso del viso di Dante che sembra essersi appena girato verso la luce, dopo essere venuto a contatto con le tenebre.
La sua espressione è pensosa e manifesta la profonda meditazione che il poeta compie e propone lungo il suo itinerario spirituale.
Nell’angolo in basso a sinistra si apre una sorta di cavità, occupata interamente da fiamme. È l’abisso infernale, le cui fiamme richiamano il destino di annientamento delle anime che, avendo scelto in vita di rifiutare Dio, hanno annullato la loro vocazione alla felicità nella relazione con il Signore stesso e con gli altri uomini.
Sopra la caverna infernale si intravede il profilo di una città, caratterizzata da un’imponente cupola e da diverse torri. È Firenze, patria del poeta.
In modo particolarmente significativo, il pittore pone la rappresentazione della città proprio sopra le fiamme infernali, a significare il pericolo che i suoi abitanti corrono. Pur amando intensamente la sua patria, Dante non risparmia a Firenze rimproveri amari e invettive severe. La ricca Firenze dei mercanti e degli affaristi – secondo il poeta - rischia di cadere preda del più grande male che possa colpire la società degli uomini: la cupidigia, fonte di divisioni, di contese, di conflitti, di ingiustizie e, in ultima analisi, causa di distruzione.
La mano del poeta si protende sulla città, quasi a volerla proteggere. È come se Dante, che ha sofferto l’esilio a causa dei suoi concittadini, desideri ammonire i fiorentini: se sapranno cogliere il messaggio sotteso alla narrazione del suo viaggio, essi potranno abbandonare le contese per volgersi al bene, ristabilendo così la giustizia e assicurando prosperità.
Volgendosi dalla parte opposta, lo sguardo del poeta si posa sul Purgatorio che, secondo la “geografia” della Commedia, è una montagna altissima che si innalza su un’isola posta nell’emisfero australe totalmente ricoperto dalle acque. Alla sommità della montagna si trova il paradiso terrestre.
A solcare le acque antistanti la spiaggia del purgatorio è una piccola imbarcazione. Essa potrebbe alludere alla barca sulla quale l’angelo nocchiero trasporta sulla spiaggia che circonda la montagna le anime destinate al Purgatorio, radunate alla foce del Tevere.
Il piccolo scafo potrebbe anche essere un riferimento a quella navicella del mio ingegno con la quale il poeta identifica la sua poesia. Tale navicella ha lasciato dietro alle spalle il “mare crudele” dell’inferno e si appresta a “correr miglior acque” per cantare “di quel secondo regno dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno”.
Dietro alla montagna del Purgatorio ecco la luce che da azzurra, si fa dorata e sempre più intensa man mano che, a forma di cono, si avvicina all’empireo. È il Paradiso, costituito dai dieci cieli: i primi nove, come sfere concentriche, circondano la terra e ruotano attorno ad essa; il decimo – l’Empireo - è immobile e si estende all’infinito. È la sede di Dio, degli angeli e dei beati.
A separare il mondo terreno da quello celeste è la sfera di fuoco, la cui tonalità rossastra è percepibile dietro le spalle del poeta.
Il poderoso libro che il poeta mostra riporta una parte del Canto XXV del Paradiso, quello in cui egli esprime il desiderio di tornare a Firenze e di esservi incoronato poeta nel Battistero di San Giovanni, dove aveva ricevuto il Battesimo. Dante si ritiene degno di ricevere l’alloro poetico grazie al suo lungo impegno nella scrittura della Commedia, pur nell’amarezza dell’esilio a cui lo hanno costretto i suoi concittadini e i suoi nemici.
Il canto prosegue con una lunga ed illuminante riflessione sulla speranza, che il poeta definisce come la sicura attesa della beatitudine futura donata dalla grazia di Dio anche in virtù dei meriti acquisiti attraverso il bene compiuto sulla terra.
Ecco il messaggio del poeta, significato anche dall’abito rosso che indossa: vale la pena appassionarsi alla virtù e decidersi per una vita secondo il volere divino. Solo così si può approdare alla luce, alla beatitudine e alla bellezza che derivano dalla contemplazione divina.
Domenico Vescia