QUANDO ESSERE MISSIONARIO SIGNIFICAVA SUBIRE STENTI E PRIGIONIA

Tempra e cuore di Padre Alessandro Bosco, trezzese di adozione

Alessandro Bosco

Alessandro Bosco nasce ad Osio Sotto l’8 agosto 1905 e viene battezzato il giorno successivo nella locale Chiesa Parrocchiale. Dopo poco tempo la famiglia si trasferisce a Trezzo, dove i genitori avevano acquistato una proprietà.

La vocazione religiosa si fa sentire ben presto; a stimolarla sono i fervorosi racconti dei missionari che, come spesso accade a quell’epoca, sono frequentemente invitati a parlare ai ragazzi per incitarli ad una decisa vita di fede e per indurli ad interrogarsi sulla vocazione alla vita sacerdotale o religiosa, come monaci, frati o missionari. Non appena compiuti i diciassette anni, il giovane Alessandro fa domanda per essere accolto come postulante e studente nel Pontificio Istituto delle Missioni Estere (PIME). Fa il suo ingresso nella comunità di Monza nel pomeriggio del 7 ottobre 1923, dopo aver ricevuto l’abito clericale nella Prepositurale di Trezzo, nel corso della Messa solenne celebrata la stessa mattina. Tra il 1928 e il 1930 è a S. Ilario di Genova come insegnante di storia e geografia e in quella casa riceve gli ordini minori; il 20 settembre del 1930, dopo appena due mesi dall’ordinazione diaconale, diventa sacerdote.

Parte subito per la Cina, destinato dai superiori alla missione di Hanchung, in una regione poverissima e pressoché isolata, tra i monti dello Shaanxi, il cui clima, rigido e inospitale, mette a dura prova la sua debole costituzione.

È particolarmente difficile ricostruire la mappa dei luoghi che lo vedono presente e operante; anche le notizie fornita da Il Vincolo, bollettino ufficiale delle missioni del PIME, e dagli stessi Annuari dell’Istituto appaiono frammentarie e lacunose, certamente a causa della difficoltà di mantenere le comunicazioni tra le diverse missioni cinesi e la Procura Generale di Milano.

Ne Il Vincolo del gennaio 1933, il nome di Padre Bosco figura nell’elenco dei missionari di Hanchung, mentre nel 1935 lo si trova tra i missionari residenti nella missione di Nanyang, dove viene trasferito per malattia e dove esercita il suo apostolato per l’intero periodo della sua permanenza in Cina, interrotto esclusivamente per un anno di studi presso la Casa di Kaifeng.

Sono anni che si collocano immediatamente dopo la fine della fase imperiale della storia cinese e prima dell’avvento del regime comunista; il governo nazionalista ha forti ascendenze cristiane, elogia l’operato dei missionari e dichiara di sperare che la loro presenza supplisca alle carenze dello Stato. Il capo della nuova Cina, Chiang Kai-shek si dichiara addirittura convinto della superiorità del cristianesimo su qualsiasi altra religione o ideologia. Forti di tali premesse, i missionari dedicano le loro energie alla scuola; nelle missioni vengono aperte scuole elementari gratuite e iniziano a progettare l’apertura di scuole superiori. A partire dal 1927, a Nanyang, funziona una scuola media parificata che, nel 1934, un anno prima dell’arrivo di padre Bosco, conta 300 alunni, che possono usufruire di moderne attrezzature, dalla biblioteca ai laboratori scientifici.

Quella dei missionari è certamente un’azione pastorale di grande modernità e, nello stesso tempo, di particolare incisività, in anni in cui l’ideologia comunista inizia a farsi strada nell’insegnamento statale, distruggendo l’antica morale familiare confuciana e affermando l’agnosticismo. Padre Alessandro inizia il suo operato in un clima di questo tipo e all’interno di strutture che cercano di rispondervi, incidendo sulla cultura e la formazione dei più giovani.

Difficoltà ed episodi drammatici non tardano ad arrivare, a causa di due distinte – e critiche - dinamiche. Da una parte inizia ad organizzarsi il Partito comunista cinese, reduce da una serie di tentativi di attuare la rivoluzione armata; dall’altra entra nel vivo la guerra scoppiata il 7 luglio del 1937 tra Cina e Giappone, anticipo della Seconda guerra mondiale. L’invasione giapponese permette alle truppe comuniste di inserirsi di nuovo nella vita del paese e così il partito può radicarsi sul territorio e iniziare azioni di indottrinamento del popolo, con una conseguente recrudescenza anticristiana.


Padre Bosco e confratelli

Padre bosco, primo in basso a sinistra, con alcuni confratelli



Ad esprimere il clima di terrore imposto dal regime e la situazione che il nostro Padre Bosco sperimenta vale leggere una testimonianza di monsignor Balconi, Vicario apostolico di Hanchung: «Il terrorismo aveva del diabolico: non era solo l’uccidere ma la voluttà di incrudelire. Fortunate le vittime che erano fucilate o decapitate. Quanti subirono strazi inauditi, mutilati e tagliati a pezzi e conservati in vita il più a lungo possibile… I lebbrosi, persone pericolose, dovevano essere bruciati vivi; chi aveva passato i sessant’anni doveva essere ucciso; i figli dovevano sporgere accusa contro i genitori che non si mostrassero entusiasti del regime; dove la popolazione si ribellava ai persecutori, si obbligavano poi alla resa con gli stessi mezzi usati per catturare le bestie feroci: bruciando i loro villaggi con tutti gli abitanti. Fu costituita la società “Sa fu tan” che significa “Società degli uccisori di padre e madre”. Per essere accettati si doveva dar prova di coraggio uccidendo padre e madre di proprio pugno… I propagandisti del comunismo in Cina portano l’odio a qualunque religione e in particolare al cristianesimo e quindi le nostre missioni ebbero a subire gravi danni»2. Come si vede Padre Bosco si trova ad operare in una situazione di grande precarietà, sottoposto al continuo pericolo di essere arrestato, torturato ed ucciso.

Nel “Corriere delle Missioni”, contenuto ne Il Vincolo del luglio 1941, si dà notizia di un bombardamento giapponese su Nanyang: una bomba cade sulla casa dei missionari, ma i Padri De Maestri e Bosco restano salvi per miracolo, nonostante le schegge “piovano” con grande intensità.

Ma un altro evento drammatico si fa incontro a padre Alessandro. Nel luglio 1942, la Regia Ambasciata d’Italia a Shanghai, tramite l’Ambasciata d’Italia presso il Vaticano, comunica alla Segreteria di Stato di Sua Santità che “tutti i missionari del vicariato di Nanyang sono internati a Neihiang”. Già dal giugno precedente i padri erano stati sottoposti a quelli che oggi si chiamerebbero “arresti domiciliari”, revocati nel settembre successivo sotto particolari condizioni e reintrodotti, dopo soli tre mesi, quando i missionari sono di nuovo confinati nella loro residenza.

Risalgono a questo periodo le uccisioni nell’Honan di sei missionari del PIME3. In seguito a tali eventi, i cinesi “sentono il dovere” di prendere i padri sotto la loro protezione e così, dopo interminabili trattative, costituiscono per loro un concentramento a Neihiang

Sono i primi tre anni e mezzo di carcere di Padre Bosco, seguiti da un momento di libertà che tuttavia si rivela piuttosto breve. Il Vincolo del gennaio 1946 comunica che «i Padri tutti sono di nuovo al loro posto con nuova energia» e lo stesso afferma il bollettino del maggio 1948, nonostante già da quasi un anno i comunisti avessero iniziato la persecuzione sistematica contro la Chiesa e presidino il luogo in cui si trova il nostro missionario.

Il 4 novembre 1948 Nanyang è occupata, ma i toni della persecuzione si smorzano: il governo rivoluzionario dichiara la volontà di rispettare la libertà religiosa e consente, seppur tacitamente che le opere missionarie continuino. Il clima di tolleranza però non dura molto: agli inizi del 1949 il governo pubblica il decreto “Fang pei mi sin” (“Guardarsi dalle superstizioni”), in cui si dichiara senza mezzi termini che l’uomo non ha anima e tutte le religioni sono inutili, parassitarie.4 Mons. Gaetano Pollio, arcivescovo di Kaifen, così testimonia: «In quell’anno tutte le chiese e cappelle, le residenze dei missionari, le scuole e i dispensari vennero occupati o incamerati; furono messe restrizioni al culto, ci fu tolta la libertà di movimento».

Altre restrizioni seguono: la Chiesa di Cina deve tagliare le relazioni con la Santa Sede, in modo da essere facilmente controllata dal governo; vengono incamerate le opere missionarie; chiese e cappelle sono trasformate in caserme. Ancora più grave è l’opera di indottrinamento compiuto dalle autorità, soprattutto verso i giovani: gli alunni delle scuole cattoliche e gli studenti in genere sono costretti a partecipare a corsi di rieducazione, al termine dei quali vengono indotti a denunciare il vescovo e i missionari come imperialisti nascosti dentro la Chiesa, persone manovrate dal Vaticano, a servizio dell’America, la grande imperialista.5

Difficile ricostruire le vicende di Padre Bosco in questi anni. Dai bollettini del PIME si apprende che, al primo gennaio 1950, il nostro missionario è addetto alla Procura di Hankow e così alla stessa data del 1951.

L’anno successivo è il più critico per la prosecuzione della missione di Padre Alessandro: il 21 novembre infatti viene decretato il suo rimpatrio, insieme a quello dei padri Brugnetti e Antenati.

Per Padre Bosco è un duro colpo: essere costretto ad abbandonare la missione che lo aveva visto appassionato e disposto ad accettare ogni sofferenza, pur di essere fedele al Signore e alla volontà dei superiori non deve essere certo stato facile. Nonostante la naturale riservatezza, si ritrova spesso a parlare – una volta rientrato in Italia – di quel dispiacere.


Padre Bosco in udienza da Papa Pio XII

Padre Bosco, quinto da sinistra, in udienza con Papa Pio XII



Nel 1954 e nel 1955 lo troviamo residente presso la Casa del PIME di Rancio di Lecco, dedito, con ogni probabilità, all’animazione missionaria delle parrocchie del circondario. Per ben tre anni risiede fuori dall’istituto, ad Arco di Trento, presso il locale ospedale. Nel 1959 gli viene chiesto di trasferirsi presso l’Istituto di via Monterosa a Milano, per assumere l’incarico di assistente economo presso l’Economato generale. Vi si dedica con grande premura, convinto di poter assecondare la propria vocazione missionaria anche dietro una scrivania, da cui dispensare aiuti e sussidi ai confratelli “sul campo”.

Volentieri si reca a Trezzo tutte le volte che viene invitato e con gioia si stringe intorno alla comunità che da sempre lo segue con affetto e lo sostiene con la preghiera.

Nel 1970 rientra a Rancio di Lecco, senza particolari incarichi ma con una rinnovata disponibilità verso i bisogni delle comunità parrocchiali che richiedono la sua presenza al confessionale, all’altare, nei gruppi di catechesi. I confratelli testimoniano la sua passione per la lettura, alla quale è capace di dedicarsi per ore, dando seguito ai numerosi interessi che ancora lo animano.

La sofferenza bussa ancora alla sua porta, qualche anno più tardi: questa volta è una malattia che non perdona, un tumore all’intestino per il quale subisce una seria operazione chirurgica. Si riprende, ma la salute riamane malferma. Una brutta caduta – qualche anno più tardi – lo costringe a letto con grandi sofferenze, di cui peraltro non si lamenta mai. E così un giorno il Signore bussa alla sua porta e trova ad aprirgli il Servo buono e fedele. E’ il sei giugno 1988. Due giorni dopo vengono celebrati i solenni, partecipatissimi funerali, seguiti dalla sepoltura presso il cimitero dei padri del PIME a Villa Grugana di Calco.

Domenico Vescia



1 PIERO GHEDDO, Pime, 150 anni di missione, Emi, Bologna 2000, pag.645.

2 In PIERO GHEDDO, op.cit., pagg. 651-652.

3 Padre Cesare Mencattini è ucciso a fucilate nel mercato di Quimen; monsignor Antonio barosi, amministratore apostolico del vicariato di Kaifeng, padre Mario Zanardi, padre Bruno Zanella e padre Gerolamo Lazzaroni sono uccisi e gettati in un pozzo a Tingtsuen; padre Carlo Osnaghi è sepolto vivo a Yekikang.

4 PIERO GHEDDO, op.cit., pag.655

5 AMELIO CROTTI, In Cina ieri e oggi testimoni di speranza. Breve storia della missione di Kaifeng negli anni 1941 – 1991, Pime, Milano 1991.


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